Lasciate perdere la carta d’identià. Quel ‘2002’, alla voce anno di nascita, vale solo per l’anagrafe. Dopo pochi scambi di battute con Sasha Grant, si capisce già di avere a che fare con un uomo adulto e con un professionista dalle idee chiarissime. Con lui abbiamo affrontato i diversi capitoli di una vita già estremamente variopinta: dai campionati Open MSP all’Eurolega con il Bayern Monaco. Un viaggio già incredibile che è soltanto all’inizio.
Sasha, che momento stai attraversando?
«Si va avanti tra alti e bassi, com’è normale che sia. Sono sereno: a 18 anni ho l’opportunità di giocare in una squadra che disputa Eurolega e Bundesliga, e questo non è certo scontato. Sto avendo le mie opportunità e mi sto impegnando per diventare il tipo di giocatore che vorrei essere in futuro. Tutto ciò grazie a coach Trinchieri e ai miei compagni di squadra».
Nel tuo passato c’è un esperienza di settore giovanile in Sardegna. Molto breve, ma sicuramente incisiva.
«É così. Mi sono trasferito dall’Inghilterra a 11 anni. Era l’estate del 2014, ricordo che erano in corso i Mondiali di basket. Come tanti ho iniziato al campetto di Dolianova, un piccolo playground dove giocavo con gli amici. L’autunno successivo ho deciso di iscrivermi al Jolly, squadra storica del paese. Ricordo che il primo anno disputavo un campionato Under 19 e un Under 15 MSP. Ero davvero gli inizi, è stata una sorta di ‘introduzione’ al basket e alle sue regole. Dopo poche partite giocate l’Esperia si è interessata a me. Ho scelto di andare da loro anche per la presenza di Carlo Bonu, figura molto importante per la mia formazione. Quella stagione è stata fondamentale per me: ho potuto disputare il mio primo campionato FIP e poi anche mettermi in mostra a livello nazionale con il Trofeo delle Regioni. L’Esperia è stata come una famiglia, capace di accogliermi e sostenermi».
Senti ancora qualcuno dei tuoi vecchi compagni di viaggio?
«Sì, certo. Soprattutto i coach, per esempio Filippo Demuro. Lui e Carlo Bonu mi vogliono bene come se ne vuole a un figlio. Sento spesso anche dei vecchi compagni di squadra. Quando li incontro ricordiamo sempre i bei momenti passati insieme».
Qual è invece il tuo rapporto con Dolianova?
«Vado veramente fiero di essere sardo e dolianovese, e ovunque vada porto il paese sempre con me. A Dolianova ci sono la mia famiglia e i miei amici d’infanzia. Purtroppo con il Covid non riesco a vederli quanto vorrei, ma conto di rimediare appena sarà possibile. Ho a cuore anche le sorti del Jolly. Ogni estate i dirigenti mi accolgono e mi consegnano le chiavi della palestra, dove la mattina svolgo delle sedute di allenamento. C’è un rapporto profondo e speciale: se non fosse stato per loro, ora non sarei certamente qui».
C’è un luogo che in cui non manchi mai di tornare?
«Casa mia: nulla è come l’odore della cucina della mamma e della vecchia stanza. Quando capito a Cagliari, invece, non manco di fare una visita alla Sella del Diavolo. Lì posso stare solo con i miei pensieri, e questa cosa mi piace tantissimo».
Hai parlato della tua stanza. Quale poster avevi vicino al letto?
«Non sono un appassionato della prima ora. Ho iniziato a giocare tardi dopo aver praticato tanti altri sport, ma posso dire che vicino al letto non mancavano le immagini di Jordan e Kobe. Da quest’ultimo, in particolare, ho appreso la Mamba Mentality, che credo sia fondamentale per ogni atleta. Se proprio devo citare un riferimento, però, dico Lebron. Il mio idolo e, a mio avviso, il più grande giocatore di tutti i tempi».
Dopo i primi approcci con il basket sul parquet dell’Esperia, è arrivata la chiamata di Reggio Emilia. Cosa ricordi di quel periodo?
«Avevo 14 anni, ricordo che ebbi svariate proposte da club italiani. Alla fine le opzioni più concrete erano due: Reggio Emilia e Virtus Bologna. Ho scelto Reggio perché l’ho ritenuta la piazza più adatta a me. Ho avuto l’opportunità di portare avanti gli studi e di lavorare con dei gruppi di età superiore. La foresteria era di ottimo livello, così come lo staff, che si avvaleva della professionalità di Andrea Menozzi e Gianluca Quarta. Mia mamma mi ha seguito e ha trovato lavoro lì. Vivevo in una appartamento insieme a lei. Ricordo la competitività dei campionati regionali dell’Emilia Romagna, decisamente più difficili di quelli sardi. Attorno a me tanti ragazzi nel giro delle Nazionali giovanili, e a Reggio sono arrivati anche per me i primi approcci con l’azzurro grazie alla chiamata per l’Europeo Under 16 in Montenegro. E proprio là, durante una gara contro la Germania, sono finito sul taccuino del Bayern».
Sempre più ragazzi italiani vanno all’estero per completare il loro percorso di crescita. Tu non hai fatto eccezione. Per quale motivo hai deciso di abbandonare l’Italia?
«Avevo ricevuto vari interessamenti da parte di squadre europee, al punto che sembrava davvero potessi andare a Vitoria. Poi, visitando la città di Monaco, ho realizzato fin dal primo momento che si trattava della destinazione giusta. Il club mi ha messo nelle migliori condizioni possibili: ho potuto diplomarmi e approcciare per la prima volta il basket senior giocando in ProB, la terza lega tedesca. Qui ho trovato le condizioni ideali per crescere, anche grazie alla presenza di un diesse del calibro di Daniele Baiesi. Pian piano, grazie al lavoro, ho iniziato a seguire la prima squadra fino a firmare il contratto da pro. Tornando alla premessa iniziale, credo che i ragazzi italiani promettenti vadano all’esterno perché l’offerta formativa non è competitiva come in altri Paesi. Qui a Monaco, tanto per fare un esempio, ho partecipato all’Adidas Next Generation Tournament, cosa che a Reggio non avrei mai potuto fare. E sempre qui ho potuto lavorare con tecnici del calibro di Emilio Kovacic, con trascorsi anche nella NBA. Qui, in definitiva, si incontrano le persone giuste che ti aiutano a crescere».
Sempre a questo proposito, al Bayern hai trovato coach Andrea Trinchieri. Carattere particolare, ma sicuramente un coach stimolante. Indubbiamente uno dei migliori d’Europa. Qualche mese fa, dopo una memorabile tirata d’orecchie in pubblico a Rudan, ti ha indirettamente citato come esempio positivo. Qual è il tuo rapporto con lui?
«Mi trovo benissimo, soprattutto perché mi tratta allo stesso modo delle stelle della squadra. É un coach estremamente esigente, ma al tempo stesso una persona di grande correttezza. Con lui devi dimostrare di essere sempre pronto e sul pezzo. Io lo ascolto e lavoro per migliorare tutto ciò che è sotto il mio controllo. Mi sta dando delle possibilità davvero importanti, come dimostrano i 20 minuti in campo nella prima, storica vittoria del Bayern in casa del CSKA. Con lui è importante comprendere che le ‘lavate di capo’ arrivano non perché non gli piaci, ma perchè vuole offrirti un aiuto».
La testimonianza della sua fiducia nei tuoi confronti è arrivata il 6 novembre scorso, con l’esordio in quintetto contro la Stella Rossa. Raccontaci le emozioni di quella serata.
«Parto da un presupposto: sto lavorando per diventare un giocatore a vocazione difensiva, che sia comunque pericoloso in attacco sugli scarichi e in situazioni di close-out. Come Kurbanov, tanto per dare un’idea. E in quell’ottica ho lavorato lungamente, a partire dalla preseason. Nella settimana precedente alla gara contro la Stella Rossa mi ero distinto in allenamento per la difesa. Coach Trinchieri, allora, mi aveva convocato nel suo ufficio comunicando l’intenzione di inserirmi in quintetto con la missione speciale di fermare O’Bryant. Ero nervoso, lo ammetto, ma anche parecchio concentrato. L’inizio non è stato dei migliori, visto che dopo pochi secondi il primo canestro è stato segnato proprio dal mio avversario diretto: un treno di 120 chili, non esattamente semplice da contenere. Pian piano, però, mi sono sciolto e sono riuscito a fare il mio, tra difese forti, recuperi e sfondamenti subiti. Per due volte, inoltre, ho sparato da tre e fortunatamente è andata dentro. É stata la mia prima esperienze di gioco vero ad altissimo livello. E da allora, per fortuna, sono arrivate tante altre piccole e grandi opportunità».
Cosa ritieni di dover migliorare per stare nel top del basket europeo?
«Il gioco si sta evolvendo parecchio in questi anni. Io stesso credo di non avere un ruolo ben definito: in attacco posso essere un 3 o un 4, mentre in difesa posso marcare tutti i ruoli dall’1 al 5, sempre all’interno di un contesto di small ball. Non di rado mi capita di dover pressare a tutto campo il play avversario. Voglio essere il più possibile versatile, con un occhio di riguardo per la difesa. In questa fase sto lavorando principalmente sulle letture. Coach Trinchieri insiste molto su questo aspetto. Non vuole che i giocatori eseguano gli schemi come una sorta di meccanismo automatico, ma che siano capaci di leggere le situazioni e prendendo le decisioni più intelligenti. Sto lavorando tanto anche sul mio tiro: ho molta più fiducia, e credo che in campo si stia vedendo».
Pensi di poterti dichiare eleggibile per il Draft nei prossimi anni?
«Non è una mia ossessione. Giocare negli Stati Uniti è l’obiettivo di qualsiasi giocatore, intendiamoci, però ora il mio focus non è indirizzato su quella prospettiva. Penso a fare il mio in questa realtà, perchè ho tra le mani una grandissima opportunità e non devo mai darla per scontata. Se poi tra qualche anno l’orizzonte NBA sarà vicino, allora vedrò se sarà il caso di provarci. Per adesso, però, sono concentrato su altro».
Ti stuzzica più il basket NBA o quello europeo di alto livello?
«Il basket americano l’ho tastato solo una volta durante l’esperienza al Camp Top 100, dunque non saprei dire con precisione. Ripeto, l’NBA è il sogno di chiunque, ma voglio stare dove posso avere maggior impatto in una squadra e in un campionato. Un profilo come il mio, specie a livello atletico, può fare la differenza in Europa».
Ti manca essere protagonista con la Nazionale maggiore? Altri giovani come Bortolani, Procida e Spagnolo si sono inseriti bene.
«Sono già stato nella long list del CT Sacchetti, ma il problema è il calendario delle squadre di Eurolega, che raramente possono rendere disponibili i giocatori per le “bolle” delle nazionali. Il Covid, poi, ha portato i club a essere ancor più restii quando si tratta di lasciar partire qualcuno. Anche Flaccadori, Moretti o Datome hanno avuto lo stesso problema. Qui, per di più, stavo giocando dei minuti importanti in campionato, dove vengo considerato giocatore tedesco. Non mi aspetto nulla di particolare, semplicemente cercherò di guadagnami le chiamate con il lavoro sul campo. Nel frattempo è bello vedere Spagnolo e Procida protagonisti. Spero di poterli imitare presto».
In estate hai avuto modo di allenarti con Gigi Datome. Che esperienza è stata?
«É partito tutto da Roberto Datome, mio agente assieme a Matteo Comellini della Sigma Sports. Lui e Gigi sono molto legati. La prima volta che ci siamo allenati insieme avevo solo 14 anni. Ricordo che andai da lui a Olbia, e fu emozionante lavorare assieme. Questa estate ci siamo concentrati tanto sul tiro, fondamentale in cui lui è maestro. Gli ho chiesto tantissimi consigli e lui è stato parecchio disponibile. Abbiamo sviluppato un bel rapporto. Non ci sentiamo tutti i giorni perché entrambi siamo super impegnati, però se ho bisogno di lui non si tira indietro. É un leader vero e una persona di grande valore. Spero di portermi allenare ancora con lui molto presto».
Hai il tempo per seguire ciò che accade a livello cestistico in Sardegna?
«Seguo la Dinamo, sono un fan dai tempi dello Scudetto. Non riesco a guardare le partite in diretta, ma vedo risultati e highlights. Per il resto cerco di tenermi aggiornato. So che il Covid ha messo in difficoltà il movimento, ma mi auguro possa riprendersi presto».
Domanda forse banale, ma dobbiamo fartela: ti piacerebbe, un giorno, tornare a giocare in Sardegna?
«Certo. Non è un mio obiettivo durante il picco più alto della mia carriera. In quella fase mi piacerebbe essere altrove. Però tornare nella mia terra sarebbe molto bello. Magari anche a Cagliari, che spero possa presto tornare ad avere una squadra in Serie A».
Come gestisci lo stress e i momenti di down psicologico?
«Questo è un tema che mi stimola parecchio, perché ritengo che la salute mentale di un atleta sia forse anche più importante del talento. Se non stai bene sei destinato a non rendere, insomma. Quest’anno ho affrontato un grosso cambiamento: quello di andare a vivere da solo. In questo modo i periodi difficili, complice anche l’isolamento sociale imposto dal Covid, diventano ancor più duri. Rialzarsi non è mai semplice, per mia fortuna però ho sempre avuto degli allenatori capaci di dare dei consigli preziosi o di indirizzarmi verso degli ottimi psicologi sportivi. Mi affido ovviamente anche alla famiglia e ai miei amici. Quando ho un problema chiamo mia mamma, e lei sa sempre dirmi la cosa giusta, anche se magari è qualcosa che non vorrei sentirmi dire. Inoltre, su consiglio di uno psicologo, tengo un piccolo diario. Ogni giorno annoto 3 obiettivi da raggiungere, 3 cose per cui sono grato e i miei stati d’animo. É importante, perchè questa tecnica mi dà modo di visualizzare i pensieri, di farli uscire dalla testa e di depotenziarli. Ma la cosa che preferisco in assoluto è il lavoro: se non sto bene mi perdo letteralmente in palestra. Lascio i pensieri fuori dal campo e mi alleno duramente».
Di fatto sei diventato professionista a 14 anni. Ti manca il fatto di non aver vissuto con totale libertà gli anni di maggior spensieratezza?
«Sono sincero, non mi manca. Ho dovuto compiere tante rinunce, ma non mi è mai pesato. Anzi, mi ritengo fortunato, perché sono consapevole che in tantissimi altri vorrebbero essere nella mia posizione. Gioco in Nazionale da quando avevo 15 anni, ho un lavoro ben pagato in una società di rango europeo rispettata da tutti. Quando posso trovo degli spazi e dei momenti per divertirmi, cercando di non superare mai il limite. Sto avendo una grande opportunità e sono davvero grato per questo».