Avete presente un bambino che gioca con i Lego? Un bambino che gioca con i Lego è molto, molto concentrato. Non sta giocando, ma costruendo. E prende tutto molto seriamente.
Ora prendete un gruppo di bambini, eleggete due capitani e chiedete loro di fare le squadre. State certi che non sceglieranno per primo l’amichetto più caro, ma colui che potrà fargli vincere la partita.
Uso spesso questi aneddoti per mettere in luce la visione, secondo me errata, dello spirito con cui i bambini si approcciano allo sport. E lo dico anche per esperienza personale.
Tra me e il basket non è stato amore a prima vista.
Da bambina ho provato tanti sport: canoa, arrampicata, sci, calcio. Alla fine ho scelto la pallacanestro semplicemente perché mi riusciva più facile. Anche quando avevo 7 anni andavo in palestra con degli obiettivi. Non volevo giocare, ma fare le cose bene. Ed è così che tutto è iniziato.
Mia mamma è stata una cestista. Mio padre, invece, sia giocatore in Reyer che, successivamente, allenatore. La prima volta che ho toccato un pallone da basket dev’essere stato senz’altro con loro. Ma la molla non è stata quella. Nessuno mi ha spinta verso questa strada, anzi.
LA PRIMA PARTITA
La prima partita non me la ricordo, devo essere sincera. Ciò che ricordo in maniera nitida è che le sere prima delle gare non dormivo. L’emotività era una compagna di viaggio costante. Mi svegliavo prestissimo e da subito pensavo alla partita. Un’altra cosa che mi viene in mente, pensando a quegli anni, è che mi piaceva giocare contro i maschi. Con loro la sfida era sempre accesa e, a differenza del mondo femminile, sempre pulita. Un confronto che si limitava al campo senza trascendere. Questa cosa me la sono portata dietro anche in età adulta, e ancora adesso mi oppongo con forza ai meccanismi interni degli spogliatoi femminili.
SUBITO IN VISTA
Mi sono distinta subito, sia dal punto di vista caratteriale che tecnico. In diversi tornei, anche misti, mi capitava di vincere il premio come miglior giocatore. L’esplosione vera e propria è arrivata a Venezia, in una società locale. Ogni anno la Reyer, che allora era parecchio diversa da quella che tutti conosciamo oggi, faceva reclutamento nell’hinterland.
Essere selezionata da loro significava iniziare ad affacciarsi al professionismo.
Ricordo che ai tempi dell’Under 13 non venni scelta, e ovviamente ci rimasi male. Allora al primo scontro diretto utile, per rifarmi, segnai contro di loro 53 punti sui 69 complessivi di squadra.
Da quel momento in poi è cambiato tutto: i riflettori si sono accesi.
Ho compiuto tutta la trafila delle Nazionali giocando gli Europei, dall’Under 16 all’Under 20. A Udine ho vinto lo Scudetto giovanile da MVP. La scalata era stata repentina. Tutto sembrava andare per il meglio.
LA PRESSIONE
Ero uno dei prospetti più importanti della mia annata, e volevo che fosse esattamente così.
Non volevo fuggire da quello status, anzi, lo cercavo.
Non mi è mai pesato avere tante attenzioni addosso. Ho sfruttato questo aspetto, al contrario, per alimentare la voglia di imparare. È una cosa che si ha o non si ha a livello caratteriale.
Vivendo ora la realtà sarda vedo riflettori accesi su giovani che ancora non hanno dimostrato nulla. E queste attenzioni rischiano di essere pesanti se ancora non si ha piena consapevolezza di sé stessi. Per crearsi autostima e consapevolezza tali da sostenere le aspettative, ci vuole prima di tutto continuità. Di rendimento e di risultati. E a livello giovanile io ho sempre superato me stessa vincendo tutto.
GLI ALLENATORI
Mio padre è stato allenatore della vecchia scuola Reyer. Una scuola che curava in maniera ossessiva ogni dettaglio legato alla tecnica individuale e alla tattica. E’ sempre stato molto puntiglioso con me, ma la sua impronta c’è tutta sul mio modo di giocare. E rimane anche ora che ho più di 30 anni.
Sono sincera: essere allenati da un genitore non è una passeggiata. Il rapporto rischia di risentirne, e infatti le incomprensioni non sono mancate, specialmente in età adolescenziale. Però c’è una cosa per cui ringrazierò mio padre a vita: avermi levato ogni alibi possibile.
Non importava il contesto, il fatto che avessi ragione o che fossi effettivamente in difficoltà. L’unica cosa che contava era la mia reazione di fronte al problema. Questo mi ha costretta a cercare dentro di me le risorse, le energie e le capacità per andare avanti. Si tratta di una lezione che ho portato sempre con me.
MAESTRI E COMPAGNI DI STRADA
Stefano Michelini, senza ombra di dubbio. Ho avuto al fortuna di incontrarlo nel 2005, al mio primo anni di A1. Cito anche Guido Novello, allenatore vecchia scuola, con grande conoscenza del gioco e carisma notevole. Poi Loris Barbiero e Federico Xaxa, tecnici che considero dei pilastri nella mia esperienza sportiva.
IL PREZZO DA PAGARE
Ho sempre avuto l’ambizione di fare del basket un lavoro. L’idea si è consolidata quando ho iniziato a fare il settore giovanile ad alto livello. Sapevo di avere le qualità per poter riuscire nel mio intento, ed ero anche ben conscia del prezzo da pagare. Non ho avuto un’adolescenza normale, ovviamente.
Tra i 13 e i 19 anni le mie estati non sono mai scivolate via tra mare o montagna. Non c’erano le vacanze con gli amici, le gite, gli eventi sportivi con le scuole.
C’erano allenamenti a maggio, giugno e luglio. Tutti i giorni, mattina e sera: questo era lo standard.
Ma non li ho mai definiti ‘sacrifici’. Il mio sacrificio, semmai, sarebbe stato essere lontana dai campi. Perché ho sempre amato questo lavoro, ed è tutt’ora ciò che sento mio, nonostante sia consapevole che questa avventura stia andando verso il tramonto.
IL MONDO SENIOR
Ci sono stati due momenti diversi nell’approccio.
A Venezia fu un pochino più semplice, perché mi ritrovai accanto a giocatrici di prima fascia a livello mondiale come Garcia, Mazic e tante altre.
Giocatrici che avevano fame, che curavano ogni dettaglio e che erano estremamente esigenti verso sé stesse.
Io sono cresciuta così e mi rispecchiavo in loro.
A Udine invece è stata un’altra storia.
C’era voglia di fare bene, senza dubbio. Ma per vincere serviva altro.
Non c’era la stessa ossessione che c’era a Venezia.
In tal senso io ero di un altro pianeta, e Abignente, che comunque è un allenatore con cui ho condiviso lo Scudetto Under 19, ha fatto molta fatica a gestire questa forbice tra me e le altre.
Perché la forbice si allargava anno dopo anno, e in mezzo c’erano invidie e gelosie.
Se a quel punto avessi incrociato un allenatore e delle compagne diverse, probabilmente la mia crescita avrebbe preso un altro indirizzo.
Quell’esperienza mi ha segnata, sia in positivo che in negativo. E comunque una cosa la posso dire con certezza: ora che ho 31 anni, non mi comporterei mai in quel modo con le giovani che entrano a far parte della prima squadra del CUS.
GLI INFORTUNI
Sono stati devastanti. A 20 anni ho scoperto un lato dello sport che, di solito, si inizia a conoscere dopo i 30.
Ho capito a miei spese che l’affetto che ti viene dato, spesso è legato soltanto al nome e al numero che si portano dietro la maglia.
La legge è una soltanto: noi giocatori siamo delle pedine.
Il movimento si basa in buona parte su uno scambio di figurine nel quale non si tiene mai in considerazione la persona che sta dietro l’atleta.
E sia chiaro, le giocatrici sono le prime complici di questo sistema malato.
A 19 anni, dopo aver vinto tutto, sono iniziati i primi infortuni. Ed è a quel punto che mi sono accorta di essere sola.
Ho affrontato interventi e riabilitazioni. Sono stata ferma per 18 mesi, e affianco a me non c’era nessuno. Mi sono arrangiata da sola in un momento di estrema difficoltà. Il mio entusiasmo è crollato, tant’è che più di una volta mi sono chiesta se veramente volessi far parte di quel mondo.
Le riflessioni interne sono state tantissime. Ricordo che durante il recupero correvo da sola, per strada, a Venezia. E ricordo anche il senso di solitudine che provavo.
In quel momento mi sono trovata di fronte a una dura scelta: continuare o smettere?
Io amo questo sport, questo lavoro, e sono giunta alla conclusione che la mia montagna l’avrei scalata a mani nude, in maniera leale e trasparente. Ero consapevole che forse non sarei tornata in cima, ma volevo essere in pace con me stessa.
Allora ho ripreso ad arrampicarmi. Senza chiodi e senza corde.
IL PRIMO IMPATTO CON CAGLIARI
“… e ricordati che io non mi fido di nessuno”
Questa è stata la prima frase in assoluto che ho rivolto al mio allenatore Federico Xaxa una volta arrivata a Cagliari.
Era il 2012. Avevo 22 anni, mi ero appena rimessa in sesto dopo un lungo infortunio, e incontrarlo è stata una fortuna.
Nonostante avessi ormai scelto i binari della solitudine, Federico mi ha aiutata a credere nuovamente in qualcosa.
Con lui ho esordito in Serie A1. Credo che la partita sia ancora da qualche parte su Youtube: guardatela, e ditemi se quello può sembrare l’esordio assoluto di una giocatrice nel massimo palcoscenico nazionale.
Giocavo leggera e serena, e il merito – ripeto – era in gran parte suo.
Ho sempre rispettato il lavoro di Federico. Lui ha sempre avuto fiducia in me e io credo di avere fatto di tutto per ripagarlo. Sono stata trasparente e leale, ed è una cosa che non accade sempre negli spogliatoi femminili.
Quando, infatti, venne ingiustamente esonerato, andai via pure io.
Il fatto di aver vissuto quell’esperienza insieme ci ha permesso, nel 2018, di tornare a lavorare con lo stesso entusiasmo di prima.
Tracciando un bilancio a distanza di quasi dieci anni, posso dire che l’avventura di quel 2012 fu bellissima, prima di essere intaccata irrimediabilmente dal veleno che inquina il basket femminile italiano.
Di fatti quell’anno il CUS portò a termine con fatica un campionato a dir poco mediocre.
LO STUDIO
Sono laureata in Economia e Commercio. Un traguardo raggiunto dopo 5 anni di studio. Ero consapevole che sarebbe stato più complicato terminare gli esami da non frequentante.
Andavo alla Ca’ Foscari, a Venezia, ma giocavo a Napoli. Studiavo nei giorni di riposo, poi prendevo l’aereo e mi presentavo agli esami.
Questi viaggi mi sono costati 2 anni di ritardo, ma avevo il fortissimo desiderio di portare a termine gli studi. E volevo farlo proprio alla Ca’ Foscari, a casa mia, in una università di prestigio.
Non posso dire che non sia stato faticoso. C’erano alcune materie che non mi piacevano. Ma sono sempre stata curiosa, e studiare non è mai stato un problema. Anche prima della laurea.
Un esempio?
Ai tempi dell’esame di maturità mi trovavo in raduno con la Nazionale Under 20 a Taranto. Nel mezzo del ritiro presi l’aereo fino a Venezia, poi Udine per la prova scritta. Nuovamente Taranto per la Nazionale, quindi la terza prova sempre a Udine. Finita? Nemmeno per idea: ancora ritiro a Caorle, e da lì sono partita per l’orale.
Studiare e giocare da pro non è impossibile: servono organizzazione e assunzione di responsabilità.
A marzo, per dire, la mia tesi era già pronta, perché non volevo ‘appesantirmi’ durante il raduno per l’Europeo.
La stessa impostazione mi accompagna ancora oggi, solo che al posto dello studio c’è la professione di educatore cinofilo.
L’AZZURRO
Non vorrei apparire retorica, ma l’Azzurro sa smuovere ogni sentimento possibile e immaginabile.
Il primo impatto è stato questo: entro in campo per il riscaldamento, faccio qualche palleggio, poi tiro: air ball.
Le gambe tremavano per l’emozione, e le mani pure.
L’età va avanti, ma non nascondo che giocare in Nazionale è una delle poche cose che mi mancano della mia ‘vita precedente‘. Mi piacerebbe rivivere quelle sensazioni.
Le manifestazioni internazionali, poi, sono un vero e proprio inno alla gioia: si sviluppano relazioni personali, c’è il confronto con culture diverse.
IL VELENO DEL BASKET FEMMINILE
Partiamo da un presupposto: la pallacanestro femminile è un ambiente in cui le parole professionismo e professionalità non esistono. Anzi, da qualche parte, forse, queste qualità ci sono ancora, ma sono estremamente rare.
Il basket femminile è una torta che dà da mangiare sempre alle stesse persone.
Società-giocattolo in mano a personaggi che di pallacanestro capiscono poco o nulla. Che di passione ne hanno poca, ma che si divertono ad avere tra le mani questo ‘passatempo’ da sfruttare a loro piacimento.
La prima figura demolita e delegittimata da questo sistema è l’allenatore.
Un tempo esistevano gli allenatori di carisma, di personalità. Ora, invece, il mercato richiede solo Yes-Man.
E gli Yes-Man sono la morte del movimento.
Il meccanismo si ripete sempre in fotocopia ed è basato su squadre composte sempre dalle stesse persone. Poi all’interno del gruppo emergono due o tre giocatrici strettamente legate a una figura di potere, che sia allenatore, dirigente o proprietario. Si sviluppano così dei rapporti privilegiati, che portano all’annullamento di ogni forma di meritocrazia.
Le straniere che arrivano cercano subito di sondare la situazione per comprendere chi detiene il potere all’interno dello spogliatoio.
E l’allenatore, ovviamente, deve fare la figura del fantoccio in balia di giocatrici che lo tengono sotto scacco, perché alla loro prima lamentela viene cacciato.
Le giocatrici che praticano questo giochino sono tante e sono quasi ovunque. Sono gratificate dalla possibilità di condizionare gli equilibri della squadra e, addirittura, di tutta la società.
A livello dirigenziale non ci sono tante persone in grado di interpretare correttamente queste dinamiche. Spesso si tratta di persone che fanno della pallacanestro il loro hobby. A differenza di quanto accade nel basket maschile, le loro porcate restano sotto banco. Hanno il sedere ben saldo sulla poltrona, e schiodarle è veramente un problema.
Qualsiasi allenatore o giocatore che voglia cambiare lo status quo o alzare l’asticella, viene fatto fuori.
Questo è ciò che accade nel mondo del basket femminile nel 90% dei casi.
Se vuoi starci, devi chinare la testa e diventare come tutti gli altri.
Solo che così il movimento non cresce. Le giovani che si avvicinano alla prima squadra respirano aria avvelenata e si rovinano perché hanno di fronte a loro degli esempi sbagliati. Su questo aspetto è necessaria una profonda riflessione collettiva.
Queste dinamiche si sono presentate praticamente in tutte le società in cui abbia giocato, e gli unici allenatori che hanno provato a ribellarsi sono stati Barbiero e Xaxa. Tutti e due esonerati per colpa dello stesso sistema malato. Il caso di Barbiero è eclatante, poiché venne esonerato quando si trovava ai vertici della classifica e si era qualificato per la Coppa Italia. Paradossale.
Nel 2012, al CUS, funzionava allo stesso identico modo. Abbiamo provato a fare il possibile per cambiare le cose, ma non ci siamo riusciti.
Ora chi viene a Sa Duchessa sa che non esistono canali privilegiati verso l’alto. I giochini di nascosto per far saltare l’allenatore, insomma, non si fanno. Ci sono solo dialogo e disponibilità, oltre a quel comune denominatore universale che è il lavoro.
IL BUIO DI LUCCA
Non pensereste mai che in una squadra fresca di Scudetto possa succedere tutto ciò di cui ho parlato appena sopra. E invece a Lucca è stato proprio così.
Non entro nei dettagli, vi basti questo: dopo 3 mesi non volevo più saperne nemmeno di entrare in palestra.
Provavo un grande senso di disagio verso l’ambiente e, per la prima volta, anche verso il mio lavoro.
Sentivo che quello non era un posto per me.
L’aria non era limpida, c’erano solo miliardi e miliardi di compromessi.
Come atleta ho sempre avuto un limite: non sono mai stata in grado di isolarmi rispetto all’ambiente circostante. Società, allenatore, compagne: ogni cosa può condizionare il mio rendimento, nel bene o nel male. Non ho mai avuto il sangue freddo e non sono mai riuscita a pensare soltanto al mio tabellino fregandomene del resto.
Ho un rapporto emotivo con il basket. È come un canale aperto all’interno del quale penetra anche tutto ciò che è attorno.
A Lucca ho iniziato ad avere dei problemi.
Stavo male, al punto che in partita, certe volte, non riuscivo nemmeno a distinguere le linee del campo. Stavo in apnea, dormivo, forse, 3 o 4 ore al giorno. Dimagrivo a vista d’occhio.
Per uscire mi sono rivolta a un professionista: uno psicoterapeuta cognitivo-comportamentale esperto in ambito sportivo.
Quando inizi un percorso del genere inizi a indagare su tutto, aprendo tante porte che erano chiuse da tempo.
Anche in questo caso mi sono tornati utili gli insegnamenti di mio padre:
“Non puoi cambiare ciò che stai vivendo, ma puoi lavorare sulla tua reazione”.
Mi sono concentrata su me stessa, perché non mi riconoscevo più. Volevo comprendere le ragioni profonde di quella reazione, interrogarmi davvero.
Il percorso di psicoterapia è durato 13 mesi. L’ho concluso quando già ero tornata al CUS Cagliari. E la scelta di tornare qui è legata ai primi 7-8 mesi di lavoro su me stessa.
La Sardegna non ha rappresentato una fuga dai problemi, bensì una scelta ponderata e ben precisa. Qui ho imparato a conoscermi in maniera profonda e a decidere solo per me stessa.
Quasi nessuno ha compreso la scelta di andare in A2, per di più in una squadra senza troppe ambizioni di classifica. In tanti, ancora oggi, mi chiedono perché non vada da qualche altra parte.
La ragione è semplice: per stare bene e rendere ho bisogno di avere vicino a me facciano dell’onestà e della trasparenza il loro marchio di fabbrica.
Dopo la stagione di Lucca, mi sono presa qualche giorno per andare in montagna con il mio cane, e lì ho riflettuto molto, maturando scelte diametralmente opposte a quelle che avevo compiuto nei 10 anni precedenti.
Ho sposato Cagliari e il CUS per la qualità delle persone. Lasciata la specialistica, ho intrapreso un percorso da educatore cinofilo professionale.
In quei giorni la mia vita è fortemente cambiata.
IL CUS OGGI E ALLORA
La prima differenza è a livello dirigenziale. Nel 2012 c’era Marcello Vasapollo, ora Mauro Mannoni: competenze e conoscenze del gioco ben diverse.
Mi sento molto più a mio agio nel confrontarmi con Mauro.
La presenza di Xaxa, poi, è una garanzia. Non di minutaggio, sia chiaro, ma di una certa filosofia nel lavoro.
Nel 2018 ho terminato il mio percorso di psicoterapia. Federico era al corrente della mia situazione, sapeva che poteva essersi rotto qualcosa tra me e la pallacanestro. E se c’era una persona in grado di ricomporre questo rapporto, era proprio lui.
Quando sono tornata ho trovato una società animata da tanta voglia di costruire, che ha posto le fondamenta del suo progetto su persone di grandi qualità umane. E proprio l’aspetto umano per me era indispensabile, considerato anche l’elevato numero di giovani che gravita attorno alla società.
L’AMORE PER GLI ANIMALI
Il mio amore per gli animali è sempre esistito. Ho preso con me Bacco, il mio cane, proprio qui in Sardegna nel 2012. Per me è stato come coronare un sogno.
Bacco è stato ed è ancora un insegnante per me. Da lui ho imparato che amare un animale, per la percezione comune che abbiamo noi, non basta assolutamente.
Per far stare bene un animale, per comprenderlo nel profondo, bisogna prima di tutto mettersi in discussione. E poi affidarsi a dei professionisti esperti in comunicazione, linguaggio, comportamenti.
E in effetti è proprio ciò che faccio io per lavoro da circa tre anni.
Bacco mi ha permesso di vedere con occhi diversi molti aspetti della mia vita. I suoi insegnamenti saranno indelebili.
Grazie a lui, alla volontà di costruire una relazione forte, ho iniziato a studiare cinofilia formandomi professionalmente. E per farlo, ripeto, ho rinunciato agli ultimi 2 anni della laurea specialistica. Ma il percorso di studi non mi dava lo stesso entusiasmo del centro Mi Fido di Te a Quartu Sant’Elena, in cui lavoro tutt’ora.
Ho studiato ragioneria a indirizzo linguistico, poi Economia all’università. Una laurea che torna sempre utile, e che infatti mi ha dato degli strumenti sia nel mestiere di educatore che, addirittura, sul campo da basket.
Ma devo dire la verità: il ruolo di professionista nel settore della cinofilia è senza dubbio il vestito in cui mi sento meglio.
EQUILIBRI
Le mie giornate sono sempre piene, e la mia vita oscilla costantemente tra il campo e il centro cinofilo. Conduco una vita semplice ma ricca di emotività, di entusiasmo, di tensione verso la crescita.
Non sono mai stata amante del caos o della confusione. Tendo, anzi, a isolarmi.
Lo faccio spesso. Cerco la solitudine ogni volta che posso.
Dentro di me c’è sempre stata probabilmente questa caratteristica, ma l’esperienza nel mondo del basket ha senz’altro contribuito a farmi diffidare dalle persone che ho intorno.
Ciò non vuol dire che non mi apra. Semplicemente lo faccio con poche persone e ben selezionate.
Quando do la mia fiducia a qualcuno, faccio sul serio. Non ho relazioni a metà.
A maggior ragione, non ci sono persone decisive per il mio equilibrio.
L’unica persona decisiva sono io.
Ho imparato ad ascoltarmi, a dialogare con me stessa. La barca la guido io, sempre e comunque. E cerco di risolvere da sola tutto ciò che posso.
A Cagliari ci sono senz’altro delle persone cui ho dato la possibilità di conoscere la parte più profonda di me stessa. Persone che, per me, sono diventate come una famiglia.
BOLZANO
È stato tutto estremamente doloroso. Una fitta incredibilmente acuta che mi ha tolto il respiro per qualche istante. Dopo un po’ ho ripreso a respirare, e ho avuto immediatamente la consapevolezza che l’infortunio fosse grave. L’esperienza, in un certo senso, mi ha aiutata a comprendere cosa fosse accaduto.
Erano trascorsi pochi secondi dal crac, e già sapevo che la strada sarebbe stata lunga.
Nonostante tutto, non ho mai pensato “adesso smetto”.
Ricordo che attorno a me c’erano diverse persone, tra cui Xaxa e Prosperi. Sentivo la loro voce.
Mi sono detta: “Alla peggio saranno 6 mesi di stop”. Ho fatto i conti rapidamente: “Ok, a dicembre sarò nuovamente dentro”.
L’infortunio mi aveva appena travolta e già pensavo al rientro.
I SOGNI
Ci sono e ce ne saranno sempre, si spera. È giusto sognare, ma anche avere obiettivi credibili, che possano essere raggiunti attraverso il lavoro. Io, se devo dirla tutta, sogno già ad occhi aperti, perché sono riuscita a trasformare in lavoro due mie grandi passioni come il basket e la cinofilia.
Quando mi alzo al mattino, mi sento estremamente fortunata per ciò che ho avuto dalla vita.
Qualche altro obiettivo da raggiungere ce l’ho, ma lo tengo per me per scaramanzia.
Non so se quando dirò basta resterò nel mondo della pallacanestro. Un mondo che mi ha dato tanto, ma anche tolto energie, ed entusiasmo.
E sia chiaro, non è per lo sport in sé, ma per l’ambiente. Per le persone.
In molti mi vedono come allenatrice, e non me la sento di escludere del tutto questa opzione. Però certamente non è un mio chiodo fisso.
Semplicemente, ancora non ho idea di cosa farò.
CAGLIARI, L’APPRODO
È la città in cui voglio costruire la mia vita futura. Stabilirmi una volta per tutte.
Sono andata via di casa a 15 anni, ora ne ho 31. In 16 anni di vita nomade, nessuno luogo mi ha dato tanto quanto la Sardegna.
Cagliari è il posto ideale per me, per lo stile di vita che ho scelto e per ciò che vorrei fare una volta appese le scarpette al chiodo.
Al CUS e nel centro cinofilo posso respirare aria pulita ed essere veramente me stessa in tutte le sfumature. Chiare o scure che siano.
Sono felice, ed è questo che mi dà la forza di dire: “Ho rotto il ginocchio? Perfetto, io tra 6 mesi torno in campo”.
Erika Striulli